Livia Gregoretti

BlogLa fast fashion (poco sostenibile) tinge i fiumi di blu

La fast fashion (poco sostenibile) tinge i fiumi di blu

Nei remoti territori dell’Africa meridionale e orientale scorrono dei corsi d’acqua dalle acque tinte di blu. La responsabile? L’industria della fast fashion, pare, ancora una volta rivelatasi poco green addicted. E’ quanto emerge dal report rilasciato dal Water Witness International (WWI), che fa luce su una situazione drammatica per il pianeta e per la salute di tutti.

 

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Il rapporto evidenzia come la produzione di vestiti in Africa per i marchi globali di fast fashion stia dando luogo ad un inquinamento delle acque del territorio, arrivando a tingere di blu i fiumi o a rendere le loro acque alcaline a causa di scarsamente etici processi di produzione e lavaggio. Sempre più soggetti della grande distribuzione tessile si approvvigionano da appaltatori in Africa, attratti da incentivi fiscali e manodopera a basso costo. Una manodopera, questa, che non vede riconosciuti i diritti umani fondamentali, né sicurezza sul lavoro o accesso ad acqua sicura e servizi igienici. I grandi brand internazionali, si legge su Reuters, potrebbero imporre pratiche migliori, ma fino ad ora è stato fatto poco per arginare l’inquinamento diffuso. Eppure il Continente Nero è un astro nascente nel settore, grazie ad accordi commerciali riformati, incentivi, programmi di aiuti mirati e costi del lavoro convenienti, i più bassi del mondo. Ma qualcosa ancora non funziona. 

In Lesotho i ricercatori hanno scoperto un fiume visibilmente inquinato dalla tintura blu per i jeans denim. Campioni prelevati dal fiume Msimbazi in Tanzania a Dar es Salaam, invece, hanno individuato un pH dell’acqua pari a 12 – lo stesso della candeggina – vicino ad una fabbrica tessile. Un autentico dramma, considerando anche che le comunità locali usano quello stesso corso d’acqua per il lavaggio, l’irrigazione e altre attività di vita quotidiana.

 

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Quando la moda è (per nulla) sostenibile

Secondo i dati del Water Witness International sarebbero circa 50 i marchi che acquistano o hanno acquistato i loro vestiti da nazioni africane, ma i ricercatori non hanno saputo collegare direttamente l’inquinamento alla catena di approvvigionamento di alcun soggetto specifico. Tuttavia va sottolineato che il rapporto non ha lo scopo di tagliare l’Africa fuori dall’industria tessile. Al contrario, gli esperti ritengono che il settore rappresenti un’importante opportunità per le nazioni africane, in termini di crescita economica e occupazione, ma solo nel caso siano garantite adeguate condizioni di lavoro e gestione delle risorse. “Rendere l’industria tessile una forza positiva in Africa è un obiettivo molto delicato”, ha affermato Katrina Charles, esperta di sicurezza e qualità dell’acqua presso l’Università di Oxford, che ha lavorato con i governi in Africa e in Asia. Ma la pressione dei consumatori verso un’industria più etica potrebbe fare la differenza: “La fast fashion dà lavoro, adesso puntiamo allo sviluppo sostenibile”.

 

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